L’espressione Made in Italy esprime un patrimonio di saperi e attitudini che costituiscono una risorsa importante del nostro paese. Questo patrimonio combina creatività e perizia, inventiva e cognizioni pratiche, eccentricità ed eleganza, di molte imprese, artigianali e industriali, che valorizzando le tradizioni del passato ed integrandole con nuove idee e intuizioni, hanno contribuito alla crescita economica dell’Italia.
All’estero i prodotti italiani hanno nel tempo guadagnato una fama tale da costituire una categoria a sé in ciascuna delle merceologie rispettivamente interessate.
Il marchio “Made in Italy” attualmente è il terzo al mondo per notorietà (dopo Coca-Cola e Visa)
I distretti territoriali formatisi negli ultimi anni sono gli eredi di una schiera di abili artigiani e mercanti dell’Italia dei cento Comuni di epoca medievale. Con la rivoluzione industriale, vista la carenza di materie prime, l’Italia sembrava condannata ad una posizione marginale nel panorama internazionale. L’abbinamento tra genialità e maestria di alcune piccole e medie imprese è diventato il fattore propulsivo del “Bel Paese” per diventare poi, soprattutto dal secondo dopoguerra, il punto di forza e la bandiera della nostra industria manifatturiera.
D’altra parte se la produzione agroalimentare, l’arredamento e l’abbigliamento hanno agito da battistrada, il “Made in Italy” s’è arricchito man mano di nuove specializzazioni: dai macchinari ai mezzi di trasporto (auto e moto), dalla chimica alle apparecchiature elettriche, ai beni d’investimento intermedi.
Con l’avvento della globalizzazione, tuttavia, è un’illusione pensare che il “Made in Italy” sia una rendita di posizione che possa costituire una polizza per il futuro. Si rende indispensabile compiere un salto culturale nuovo. S’impongono in particolare: crescita dimensionale, cooperazione, ricerca, progettazione, innovazione, formazione professionale, produttività, internazionalizzazione.
Negli ultimi dieci anni, in particolare, abbiamo assistito tra l’altro: l’introduzione dell’euro (2002), un progressivo apprezzamento del cambio dell’euro rispetto al dollaro (passato da 0,8 a 1,3), la concorrenza crescente della Cina. Molte imprese sono state spinte (scelta quasi obbligata) a spostarsi verso segmenti di produzione a maggior valore aggiunto. Uno studio di Intesa Sanpaolo ha messo sotto osservazione migliaia di prodotti italiani destinati all’export, verificandone le fasce di prezzo rispetto alla concorrenza. La conclusione è che la produzione definibile di “alta qualità” è cresciuta nel periodo di quasi otto punti percentuali passando dal 29,7% al 37,3%. Lo spostamento verso l’alto di gamma, l’innovazione, il posizionamento all’interno di nicchie di alta tecnologia o di produzione “tailor-made” (su misura) hanno permesso di non soccombere davanti all’invasione di produzioni a basso costo in arrivo dal Far East. I risultati parlano chiaro: l’Italia negli ultimi dieci anni ha perso “solo” lo 0,7% di quota di mercato sull’export globale, contro l’1,6% perso dalla Francia. La Germania, invece, ha saputo fare meglio di noi. Per quanto riguarda, invece, la quota di mercato nei prodotti di alta qualità, vediamo, per l’Italia, addirittura un aumento: nel 2001 era del 4,3%, nel 2009 era del 4,7%.
In base al Trade performance indicator del Wto-Unctad (efficienza delle esportazioni), il sistema italiano è secondo, in termini di competitività, solo a quello tedesco. E’ un sistema in cui viene riconosciuta a livello globale la capacità di innovare e di coniugare creatività, design e distintività dei prodotti con efficacia e flessibilità operativa e in grado di emergere grazie alle proprie specializzazioni, oltre che nei settori tipici del “Made in Italy”, nella produzione di beni d’investimento intermedi (B2B) in filiere strategiche quali macchinari, metallurgia, automotive, chimica e apparecchiature elettriche.
Ci sono, tuttavia, ampi margini di miglioramento. Secondo il rapporto medium-sized enterprises in Europe, Confindustria, Ricerche e Studi, R&S e Unioncamere, il valore aggiunto per addetto nelle imprese tedesche di dimensione compresa tra 50 e 99 dipendenti è pari a 72,6 mila euro e delle imprese con 100-249 dipendenti a 61,6 mila euro, contro i 55,2 e i 51,4 mila euro delle omologhe italiane; il Roi medio per le stesse categorie dimensionali è pari rispettivamente al 23,5% e al 19,5% in Germania e al 10,4% e al 9,9% in Italia. In sintesi, il rapporto evidenzia che il gap rispetto alla Germania è dovuto a due componenti: maggior produttività e maggior presidio, da parte delle imprese tedesche, di comparti ad elevata intensità tecnologica. Sotto il profilo finanziario, la media impresa tedesca si caratterizza per un rapporto Debiti finanziari a breve/Circolante netto nell’ordine del 30% mentre quella italiana supera il 50%.
I dati sopra citati ci forniscono una possibile linea da seguire. Le imprese italiane devono insistere nello sviluppo di prodotti unici che permettano di acquisire una leadership su nicchie altamente specializzate, rimanendo lontani da contesti di mass-market in cui la concorrenza si gioca più sui volumi e compressione dei margini. Ciò passa per il presidio e lo sviluppo rigoroso delle proprie competenze, sul reinvestimento sistematico degli utili in attività di innovazione e R&S, sulla creazione di più strette relazioni con i clienti.
Sul fronte della governance delle imprese italiane è possibile sperare in un sistema in cui il carisma dell’imprenditore sia sostenuto da un sistema di valutazione delle decisioni e di lettura dei risultati. Andrebbe, in particolare, promosso un appropriato equilibrio tra influenza della proprietà familiare e iniezione di competenze manageriali esterne nella gestione dell’impresa, entrambi elementi fondamentali di successo: il primo nel sostegno della crescita a lungo termine, non asservita alla dipendenza dai risultati trimestrali; il secondo come fonte di rinnovamento delle competenze operative e come elemento di supporto strategico soprattutto nei passaggi generazionali. E’ risaputo, infatti che la maggior parte dei manager esterni rispondono a obiettivi di breve periodo (massimizzazione della redditività a breve) che non sempre collimano con il desiderio della proprietà di veder garantita la redditività a medio-lungo termine. E’ altrettanto vero, d’altra parte, che difficilmente una impresa può crescere senza l’apporto progressivo e continuo di competenze manageriali esterne sempre più evolute.
Secondo una recente ricerca dell’Associazione per il design industriale (Adi) le aziende italiane che sono cresciute negli ultimi anni, nonostante la crisi, sono quelle che hanno puntato sul design, inteso non come brand, ma come processo innovativo, che investe non solo i prodotti, ma anche i servizi, i materiali, un intero progetto. Ormai si danno per scontate caratteristiche come bellezza e funzionalità. A fare la differenza sono i materiali scelti, la sostenibilità ambientale, la riduzione dei consumi e dei rifiuti.
Nel parlare di questi argomenti sorge spontanea una obiezione: l’innovazione costa e, forse, se la possono permettere solo le grandi imprese. Intervistata sull’argomento, da Il Sole 24 Ore, Luisa Bocchietto, presidente dell’Adi risponde: “la capacità di innovare dipende più dalle persone che dai soldi”.
Al Meeting di Rimini (21 agosto 2011) il Presidente Giorgio Napolitano disse:
“abbiamo insistito tanto su quel che l’Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato, e sulle grandi riserve di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo, perché le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito incerto… Riecheggiando le parole del Presidente Roosvelt, appena eletto nel 1932, “l’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa”. Ma dinanzi a fatti così inquietanti, dinanzi a crisi gravi, bisogna parlare il linguaggio della verità: perché esso non induce al pessimismo ma sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza… Siamo attenti, dare fiducia non significa alimentare illusioni; non si da fiducia e non si suscitano le reazioni necessarie, minimizzando o sdrammatizzando i nodi critici della realtà, ma guardandoli in faccia con intelligenza e con coraggio. Il coraggio della speranza, della volontà e dell’impegno. Dell’impegno operoso e sapiente, fatto di spirito di sacrificio e di massimo slancio creativo e innovativo. Impegno che non può venire o essere promosso solo dallo Stato, ma che sia espresso dalle persone, dalle comunità locali, dai corpi intermedi, secondo quella concezione e logica di sussidiarietà…Bisogna portarsi tutti all’altezza dei problemi da sciogliere e delle scelte da Scelte non di breve termine e corto respiro, ma di medio e lungo periodo”.
Per chiudere voglio riportare le parole usate da Epicuro (341 a.C. – 271 a.C.) nella lettera sulla Felicità:
“ricordiamoci poi che il futuro non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro. Solo così possiamo non aspettarci che assolutamente si avveri, né allo stesso modo disperare del contrario”.
Il filosofo ci guida verso una definizione di felicità che è misura e sobrietà, che è volgere avanti lo sguardo raccogliendo nelle nostre mani il destino. Ci dice che, in una certa misura, la felicità possiamo costruircela, senza dimenticare che non può esserci felicità senza impegno e assunzione di responsabilità, che occorre “fare” e non solo reclamare diritti dimenticandosi dei doveri. Applicando la filosofia del “fare” di Epicuro a creatività e perizia, inventiva e cognizioni pratiche, eccentricità ed eleganza otteniamo niente popò di meno che il “Made in Italy”.