Tasse ed evasione fiscale nell’antichità

Tasse ed evasione fiscale per un motivo o un altro sono sempre temi di grande interesse.

Si è da poco conclusa l’ennesima edizione dello scudo fiscale per rimpatriare i soldi disponibili all’estero e nascosti al fisco italiano e si pensa già di farne un’altra. A breve si faranno le dichiarazioni dei redditi e come ogni anno un pezzo d’Italia aspetterà di sapere quante imposte avrà da pagare prima di prenotare le vacanze (un’altra parte ha prenotato le vacanze e adatterà le imposte da versare in conseguenza del budget destinato le vacanze).

Ma i tributi e l’evasione non sono frutto della società contemporanea: il conflitto tra Istituzioni e cittadini è iniziato nell’antichità.

I popoli antichi non avevano il bisogno di ricorrere all’intervento di un’autorità superiore che imponesse loro di pagare le tasse. I loro bisogni e le loro necessità erano così limitati che bastavano i mezzi ricavati dalle attività agricole e dalla pastorizia per soddisfarli.

Con il progredire della vita sociale, l’incremento delle esigenze collettive, le imponenti campagne belliche egizi, greci e romani introdussero le contribuzioni imposte dall’alto.

Nell’antico Egitto

Secondo quanto previsto dal famoso Codice Hammurabi i cittadini egiziani presentavano una sorta di odierna dichiarazione dei redditi nella quale doveva essere indicata la rendita di tutti i beni e di tutte le attività commerciali. Il popolo versava al Faraone la quinta proventum, un tributo applicato alle terre fertili nella misura della quinta parte (20%) di tutti i guadagni.

In caso di falsa dichiarazione non era previsto alcun modello integrativo o l’istituto del ravvedimento operoso, e nei casi più gravi si applicava anche la pena di morte.

Nell’antica Grecia

Le autorità accanto alle imposte ordinarie per soddisfare i bisogni dei cittadini, introdussero anche quelle straordinarie per le necessità derivanti dalle numerose guerre.

Le entrate ordinarie erano date dalle tasse sulle terre produttive, dalle rendite derivanti dai beni degli schiavi e degli stranieri, dai tributi degli alleati e dalle prestazioni ricavate da beni pubblici come foreste e miniere.

Le imposte straordinarie erano costituite dai prestiti e dalle tasse sulla proprietà applicate in caso di guerra e di crisi finanziarie.

È curioso pensare che Solone nel VI secolo a.C. abbia disciplinato la figura dei sicofanti, cittadini che di propria iniziativa denunciavano alle autorità chiunque avesse violato la legge e , di conseguenza, avesse danneggiato gli interessi di tutta la comunità. Con il passare del tempo questa figura ha finito per assumere una valenza negativa in quanto le accuse mosse dai sicofanti erano spesso infondate e costruite ad hoc per motivi politici.

Nell’antica Roma

I tributi erano impiegati per costruire edifici pubblici, infrastrutture (mura, templi, strade e fognature).

La più antica forma di tributo in natura era il lavoro obbligatorio chiamato munera. I doveri variavano a seconda dello status sociale e patrimoniale e consistevano sia in prestazioni di mano d’opera (nella costruzione di strade e nei panifici statali), sia nello svolgimento di mansioni varie per conto dello Stato come la riscossione di tasse, fare da scorta ai trasporti di generi alimentari, ecc.

Con l’istituzione del tributum in capita (tributo per testa) le imposte si fecero gravare in egual modo sui ricchi e sui poveri. Il malcontento sfociò in evasione fiscale e alle autorità non restò che ripartire i tributi in base alla capacità contributiva dei cittadini. Il tributo fu commisurato, quindi, alle proprietà immobiliari e mobiliari possedute e in funzione della tribù di appartenenza.

Con l’espansione dell’Impero romano a Roma fu introdotto il dazio in entrate ed in uscita dalle città sulle merci trasportate (hai presente quando nel film “non ci resta che piangere” Benigni e Troisi sono al confine e il doganiere grida: “chi siete, quanti siete, cosa portate…un fiorino”?).

Augusto, sulle orme di Solone in Grecia, elaborò leggi per regolamentare la figura professionale di colui che denunciava l’evasione fiscale. Questo professionista promuoveva anche l’attività processuale per tutelare l’interesse del fisco. A lungo andare, però, anche a Roma la situazione degenerò perché questi personaggi persero di vista la loro mission, maturando vere e proprie vendette personali. Con l’editto di Costantino del 312 d.C. la loro figura fu eliminata dal sistema processuale.

Per sfuggire al fisco e ai suoi esattori i Romani degli ultimi tempi dell’impero si rifugiavano addirittura presso i barbari.

Alcuni storici sostengono che una delle principali cause della caduta dell’Impero romano sia stata proprio la schiacciante pressione fiscale.

Di certo c’è solo che oggigiorno la vita degli evasori è molto meno ardua. Non serve nascondersi presso i barbari ai confini del mondo ma è sufficiente nascondere i propri denari in un paradiso fiscale caraibico oppure direttamente sul conto della nonna nullatenente dietro l’angolo.